Il continuo incremento dell’età media della popolazione, indiscusso segno di benessere e del successo della medicina odierna, ha come rovescio della medaglia una maggiore incidenza di malattie legate all’età. Tra queste, le malattie del sistema cardiocircolatorio (infarti del miocardio, ictus cerebrovascolari) rappresentano la principale causa di morte o disabilità. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che in Europa quasi cento milioni di persone sono colpite da una qualche forma di demenza. Oltre alle indiscusse e drammatiche ripercussioni personali, la demenza si porta dietro un imponderabile carico a livello familiare, lavorativo e socio-economico.
Che cosa sono le demenze?
Sarebbe opportuno, in realtà, parlare di demenze, in quanto si tratta di un gruppo estremamente eterogeneo di malattie, ciascuna con le proprie caratteristiche peculiari. Il termine deriva da “de-mens”, ovvero “senza mente”: i tratti salienti di questa malattia sono proprio rappresentati da una compromissione più o meno significativa delle funzioni cognitive e del comportamento. Quella di Alzheimer rappresenta di gran la forma più diffusa di demenza (pressochè tre casi su quattro), seguita dalle forme vascolari, dalla demenza fronto-temporale e dalla demenza a corpi di Lewy.
Sebbene alcune condizioni di deterioramento cognitivo siano reversibili, come quelle legate a determinati farmaci o determinate da squilibri ormonali-metabolici, ad oggi in realtà non esiste una vera e propria cura per le più comuni forme di demenza. Nel corso degli ultimi anni sono stati messi a punto dei farmaci capaci di potenziare l’attività dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore di importanza fondamentale nelle attività cognitive: galantamina, rivastigmina, donepezil, detti anche inibitori dell’acetilcolinesterasi. A questi si affiancano gli agonisti del recettore NMDA, che limitano l’azione neurotossica di un altro neurotrasmettitore: il glutammato. Questi farmaci, seppur in grado di migliorare lievemente la performance cognitiva e i disturbi comportamentali, non modificano l’esito finale. Non sono stati ancora messi a punto, purtroppo, farmaci capaci di incidere realmente sull’andamento della malattia.
L’importanza di una diagnosi precoce
Per tale motivo una diagnosi precoce diventa un elemento chiave nel prolungare quanto più possibile l’indipendenza del soggetto, riducendo nel contempo il carico familiare e sociale.
Purtroppo la diagnosi precoce, nel caso delle demenze, è tutt’altro che semplice. Non avendo la possibilità di effettuare test di screening, come avviene con altre malattie (un prelievo del sangue per il diabete, ad esempio) è necessario prestare attenzione ai primissimi e sfumati segni di deterioramento cognitivo, come piccole incertezze nella memoria o lievi modifiche nel comportamento. In alcuni casi è il paziente stesso che si accorge che qualcosa non va, magari perchè non riesce a ricordare dove ha messo gli oggetti (ponendosi la classica domanda “perchè mi dimentico le cose?”), oppure ancora il giorno della settimana. In altre situazioni sono invece i familiari che prendono l’iniziativa, dopo essersi accorti che un dei propri cari ha difficoltà in una o più attività quotidiane.
Il paziente o i familiari prendono in genere contatto con il medico curante che, dopo aver prescritto una prima serie di esami di routine (incluso un prelievo), invierà ad uno specialista. A questo punto il passo successivo è quello di individuare, per quanto possibile, l’entità e le caratteristiche del deficit cognitivo. Questo passaggio chiave viene effettuato attraverso una valutazione neuropsicologica.
Che cosa sono i test neuropsicologici?
La valutazione neuropsicologica (talora indicata come “test neuropsicologici”) è caratterizzata da una serie di prove che hanno il duplice obiettivo di individuare le funzioni cerebrali compromesse e, nel contempo, di stimare l’entità del danno. Queste prove sono, in sostanza, dei veri e propri esercizi standardizzati, ciascuno dei quali è in grado di esplorare e descrivere una precisa funzione cerebrale. Il pattern della compromissione (quali funzioni sono compromesse, e quanto) può dare informazioni importanti sulla natura della malattia: se la compromissione è incoerente o presenta aspetti contraddittori, è possibile che non si tratti di una vera e propria demenza, ma di un qualche altro disturbo (ad esempio un quadro psichiatrico).
Misurare l’entità della compromissione, invece, è utile per poter monitorare nel tempo l’andamento della malattia, oltre che gli effetti della terapia. In alcuni casi, l’andamento aiuta nella diagnosi: nelle forme degenerative, come l’Alzheimer, l’andamento sarà progressivo (e più rapido nelle fasi terminali), mentre nelle forme vascolari, legate alla presenza di microinfarti, si osserverà un andamento a “gradini”, con repentini peggioramenti alternati a periodi di stasi.
E’ davvero utile sottoporsi a una valutazione neuropsicologica?
La valutazione neuropsicologica è utile, come detto, anche per valutare i risultati della terapia. In caso di buona risposta ai farmaci, si osserverà un rallentamento nel declino cognitivo o addirittura, in alcuni casi, un temporaneo incremento della performance. I test neuropsicologici, inoltre, sono indispensabile per sapere quando cominciare – e quando interrompere – la terapia con inibitori di acetilcolinesterasi. L’assunzione di questi ultimi, infatti, può essere interrotta nel momento in cui i la performance cognitiva raggiunge livelli molto bassi, perchè in questo caso i rischi legati alla loro assunzione superano i benefici.
I test neuropsicologici, pur rappresentando uno strumento potente e molto sensibile, vengono spesso considerati come un esame accessorio, da affiancare alla diagnostica strumentale tradizionale. Alcuni pazienti, addirittura, ne sono spaventati in quanto hanno paura di scoprire qualcosa che non va: niente di più sbagliato! Il loro impiego nelle primissime fasi, o meglio ancora all’insorgenza dei primi e timidi sintomi, può allentare in modo significativo il carico della malattia tanto sul paziente quanto sui familiari.